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(...) «A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento» (continua - fai il download dell'intero testo).
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(...) “Ci sono voluti secoli perché la Chiesa comprendesse che l’amore trinitario è un amore di completa parità. Per questo il vescovo ha il compito di costruire una comunità che superi le disuguaglianze, che dia forza ai più deboli, che purifichi da ogni tentazione di dominio e di sottomissione”.
Se è vero che la Chiesa ha una struttura gerarchica fin dal suo inizio (altrimenti sarebbe un insieme eterogeneo di individui e non un Corpo), si tratta però di una forma paradossale di gerarchia: i vescovi vengono ordinati per governare, ma il loro “governo” è sempre a servizio del governo di Dio, non della propria persona.
Il cardinale George di Chicago, come ricorda Radcliffe, ha denunciato recentemente che la Chiesa non è Cristo-centrica, bensì vescovo-centrica. Eppure il vero potere del vescovo (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) Gregory Hofmann è un tredicenne statunitense che, come un numero crescente di suoi coetanei, è riuscito a farsi donare l’ambito iPhone per Natale. Ma nel pacchetto regalo preparato dai genitori c’era una sorpresina: un contratto. Un documento in 18 punti stilato dalla madre che prevede una serie di regole di comportamento e di obblighi cui ottemperare, pena il sequestro del “mezzo”. (...) “Buon Natale!”, esordisce il documento. «Tu sei ora l’orgoglioso possessore di un iPhone. (...) Sei un ragazzino bravo e responsabile e te lo meriti. Tuttavia insieme a questo regalo ci sono delle regole da seguire. (...) In caso di inadempienza verrà rescisso il contratto e il tuo possesso dell’iPhone». Ed ecco, continuando a mescolare affetto e autorità, bastone e carota, alcune delle regole auree ideate da Janell Burley Hofmann e indirizzate al tredicenne. La prima, e quella che... (continua - fai il download dell'inetro testo)
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Chi oggi voglia esprimere un pensiero che renda il messaggio cristiano, incorre in una grande difficoltà. Non appena impiega le parole che da sempre hanno dato espressione a questo pensiero, nota che esse sono diventate inattendibili. Così come sono correnti nell'uso del nostro tempo, il loro senso si è fatto scolorito e inautentico. E' trapassato in ciò che ha dimensione culturale generale o che attiene al sentimento.
Anzi in più modi si è mutato... (continua - fai il downoload dell'intero testo)
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(...) L 'incontro si fa intenso. Al termine uno stormo di rondini circonda e spiega il quinto comandamento:
Non uccidere nessuno
Non togliersi la vita
Non chiedere la pena di morte
Non bere se si deve guidare
Non prendere droghe
Non fare la guerra
Aiutare i bambini poveri che muoiono di fame
Non bere troppo (anche se non guidi)
Non fare gli sciocchi in bicicletta
Dire a papà di non superare i limiti di velocità
Non inquinare
Non dimenticare la raccolta differenziata dei rifiuti
Non mangiare troppo
Curarsi se stai male e prendere le medicine
Curare i malati, e i vecchi anche se non guariscono
Non fumare
Non attraversare la strada senza guardare
Dire ai genitori di non guidare col telefonino
Non fare a botte e non litigare
Non offendere e non trattare male
Rispettare la vita di tutti, anche degli animali
Ventuno modi per non uccidere, scoperti a nove anni. (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) Quello che sento l’urgenza di dire è molto sgradevole. Vi farà arrabbiare. Proverò a farvi venire qualche dubbio. Anche un solo dubbio. Perché quel dubbio, io ne sono convinta, può fare la differenza. Può salvare una vita. La vostra. La vita di un altro. La vita di tutti noi che ci arrampichiamo come formiche sul muro scivoloso dei giorni. Diffidate di chi dice: «TI AMO».Perché non dice quello che sembra. Perché l’amore è una truffa. E la parola “amore” è un’arma.Letale, purtroppo, troppo spesso. Certe volte uccide l’anima, il futuro, la libertà. Altre volte fa scorrere il sangue. (...) Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Questa è la domanda. (...) L’amore, come lo intendiamo noi, è un prodotto culturale. Una invenzione (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) Se i concetti di "governo", di superiore, di obbedienza vengono estrapolati dal contesto di una spiritualità complessa, si favoriscono le aberrazioni e gli abusi. Come l'abuso di chi ha l'autorità e richiama i suoi sudditi all'obbedienza cieca di sant'Ignazio senza averne il genio mistico e la carità, senza cioè assicurare una formazione adeguata che verifichi il grado di adesione a Cristo della persona, senza che sia garantita, insieme alla prassi dell'obbedienza, la preghiera personale, l'autentica pratica del discernimento, lo stesso zelo per la carità fraterna e l'aspirazione all'umiltà perfetta. Vi è una sottomissione che fa del religioso un mercenario o un fariseo, un ateo sterile. (continua - fai il download)
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Pochi, forse, pur tra i battezzati, sono giunti alla conoscenza del Dio vivo, così come ce la presenta la Scrittura e come ce la presenta Gesù. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese, proprio perché è vivo. La riprova che non sempre abbiamo la giusta idea di Dio è che talvolta siamo delusi: «Mi aspettavo questo, mi immaginavo che Dio si comportasse così, e invece mi sono sbagliato». In tal modo ripercorriamo il sentiero dell'idolatria, volendo che il Signore agisca secondo l'immagine che ci siamo fatta di lui.
"Signore, noi ti conosciamo poco, e tu infatti hai detto che nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui il Figlio lo voglia rivelare".
è soltanto nella rivelazione della Scrittura, che ha il suo culmine in Gesù, che noi possiamo conoscere il Dio vivo, Colui che né la carne né il sangue ci rivelano, né i ragionamenti, né le abitudini, né le deduzioni della nostra mente. Certo, noi possiamo giungere a dire che c'è qualcuno al di là di noi, al di là di tutto, ma non lo riteniamo mai così superiore a noi da poterci «deludere» e sorprendere.Istintivamente lo riduciamo alla nostra misura, mentre l'adorazione del Dio vivo, l'adorazione dello zelo forte, instancabile, ardente fino alla crudeltà, di Elia è per il Dio a cui nessuno più dire nulla, che è la di là di ogni immagine e pensiero nostro, che si rivela per amore e con amore sconvolge sempre e ancora una volta le idee umane.
Tutto il vangelo è una manifestazione della fatica compiuta dagli uomini per accettare il Dio di Gesù, a cominciare dagli apostoli, perché lo attendevano diverso. E quando il Dio di Gesù annuncia che si rivelerà nella croce, si scandalizzano accorgendosi che non è il Dio che pensavano.
Serviamo davvero il Dio vivo?
"Rivelati, Signore, a me, rivelati sconvolgendo i miei pensieri, rivelati distruggendo le mie idee prefabbricate su di te, distruggendo gli idoli, le false immagini di te che occupano il mio cuore". (continua - fai il download)
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(...) "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che offrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". Con queste parole, il 7 dicembre 1965, la chiesa planava dai cieli della sua disincarnata grandezza e sceglieva di collocare definitivamente il suo domicilio sul cuore della terra.
E' come se avesse annullato di colpo la barriera di secolari distanze, accettando di diventare coinquilina degli stessi condomini abitati dai comuni mortali. Ha rinunciato spontaneamente per sempre a quella zona di rispetto creatale da antichi prestigi: non per timore della sua solitudine, ma preoccupata della solitudine degli uomini.
Con quel preludio solenne, diga squarciata dai pensieri di Dio, la chiesa sembra dire al mondo così: "D'ora in poi le tue gioie saranno le mie; spartirò con te il pane amaro delle identiche tristezze, mi lascerò coinvolgere dalle tue stesse speranze, e le tue angosce stringeranno pure a me la gola con l'identico groppo di paura".
Noi tuoi figli ti diciamo grazie, chiesa, perché ci aiuti a ricollocare le nostre tende nell'accampamento degli uomini. (continua - fai il download dell'intero testo)
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Chi è per me Dio? Fin da ragazzo mi è sempre piaciuta l'invocazione, che mi pare sia di San Francesco d'Assisi, «mio Dio é mio tutto». Mi piaceva perché con Dio intendevo in qualche modo una totalità, una realtà in cui tutto si riassume e tutto trova ragione di essere. Cercavo così di esprimere il mistero ineffabile, a cui nulla si sottrae. Ma vedevo anche Dio più concretamente come il Padre di Gesù Cristo, quel Dio che si rende vicino a noi in Gesù nell'eucarestia. Dunque c'era una serie di immagini che in qualche maniera si accavallavano o si sostituivano l'una con l'altra: l'una più misteriosa, attinente a colui che è l'inconoscibile, l'altra più precisa e concreta, che passava per la figura di Gesù. Mi sono reso conto ben presto che parlare di Dio voleva dire affrontare una duplicità, come una contraddizione quasi insuperabile. Quella cioè di pensare a una Realtà sacra inaccessibile, a un Essere profondamente distante, di cui non si può dire il nome, di cui non si sa quasi nulla: e tutto ciò nella certezza che questo Essere è vicino a noi, ci ama, ci cerca, ci vuole, si rivolge a noi con amore compassionevole e perdonante. Tenere insieme queste due cose sembra un po' impossibile, come del resto tenere insieme la giustizia rigorosa e la misericordia infinita di Dio. Noi non scegliamo tra l'una e l'altra, viviamo in bilico (...). Come dice il catechismo della Chiesa cattolica, la dichiarazione «io credo in Dio» è la più importante, la fonte di tutte le altre verità sull'uomo, sul mondo e di tutta la vita di ogni credente in lui. D'altra parte il fatto stesso che si parli di «credere » e non di riconoscere semplicemente la sua esistenza, significa che si tratta concretamente di un atto che non è di semplice conoscenza deduttiva, ma che coinvolge tutto l'uomo in una dedizione personale. (..) Ci poniamo il problema dell'ateismo o meglio dell'ignoranza su Dio. Nessuno di noi è lontano da tale esperienza: c'è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere. Su questo principio si fondava l'iniziativa della «Cattedra dei non credenti» che voleva di per sé «porre i non credenti in cattedra» e «ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio». (continua - fai il download dell'intero testo)
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Gesù dice: «Voi siete coloro che avete perseverato» (Lc 22,28). In greco, più semplicemente, «siete rimasti», cioè siete coloro che non se ne sono andati. E' una parola di lode: "Avete sofferto così tanto che avreste potuto andarvene, e non l'avete fatto".Viene alla mente l'episodio di Gv 6,67-68: «Volete andarvene anche voi?», e Pietro che risponde: «Signore, da chi andremo?». Gesù verifica che fino all'ultimo istante gli apostoli sono rimasti, hanno perseverato, non l'hanno abbandonato.Il concetto di perseveranza lo si trova spesso nella Scrittura, con espressioni diverse. Ad esempio, «custodire la parola» indica la pazienza perdurante e resistente: «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). L'uomo fa fronte alla situazione di prova con la perseveranza, la perduranza, la resistenza, la custodia della Parola.Mentre la prova tende a far tornare indietro, induce a perdersi d'animo, l'atteggiamento direttamente contrastante non è necessariamente quello della vittoria immediata ma del resistere, del rimanere fermo, saldo. L'evangelista Giovanni usa un verbo molto semplice: méneìn, che indica qualcosa di simile. «Se rimanete in me - dice Gesù - e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,7). Il "rimanere in Gesù" è il modo per opporsi alla prova.Molte delle prove di noi credenti vengono dalle situazioni concrete della realtà storica e sociale nella quale ci riconosciamo, ossia la Chiesa cattolica con i suoi problemi, le sue fatiche, le sue pene e difficoltà. Queste sono le prove di Gesù capo del popolo messianico.
Tutto questo ci pesa, talora ci irrita, ci inquieta perché vaglia la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, la nostra pazienza, la nostra sopportazione, il nostro senso del limite. Ma sono proprio queste le prove di cui Gesù dice «mie».
Poi, naturalmente, ciascuno vive quelle delle persone che gli sono affidate: la gente della parrocchia, i giovani, coloro verso i quali abbiamo doveri pastorali specifici. Ciascuno è in qualche modo sommerso dalle sofferenze della propria gente, dei propri confratelli, di quanti amiamo.
Sono tutte le prove di Gesù Messia, Figlio dell'uomo, capo del popolo messianico, dell'umanità e ad esse partecipiamo di fatto, non soltanto con la fantasia, e vi partecipiamo intimamente.
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(...) Sono cinque doni che S. Paolo enumera come costruttivi della comunità cristiana per l'edificazione del Corpo di Cristo. Sappiamo che non sono gli unici doni perché, in altre lettere di Paolo, troviamo indicati altri carismi; in questo versetto della lettera agli Efesi, l'Apostolo pensa però specificamente alla costruzione della Chiesa.
L'apostolo è colui che pone il fondamento iniziale di una comunità e la sorregge, il profeta interpreta i disegni di Dio per il momento attuale della comunità, l'evangelista proclama il kérygma, la buona notizia, e quindi aggrega alla comunità nuovi fedeli che sono attratti dalla parola di salvezza, il pastore custodisce e porta avanti il gregge che si è creato, il dottore approfondisce, attraverso la catechesi, la dottrina e la teologia, tutto ciò che forma il corpo della comunità.
Sono cinque grandi carismi formativi della comunità. Una comunità sana, ben fondata, è quella che sviluppa tutti questi carismi che, nella storia della Chiesa, si sono espressi in modi diversi: i fondatori di comunità, cioè gli apostoli e i profeti che interpretano per il proprio tempo la parola di salvezza, sono passati in seguito ad altri uffici, ad altri servizi ecclesiali e, oggi, è proprio dei Vescovi il portare avanti l'ufficio di sostegno per l'unità della comunità e l'impegno di interpretare per la comunità i disegni di Dio sul presente. è l'azione magisteriale e unificatrice del Vescovo.
I due carismi seguenti, evangelisti e pastori, pur essendo propri anche del Vescovo, si riferiscono in particolare a coloro che hanno la cura specifica di vari membri e situazioni della comunità. Concretamente e per buona parte la Chiesa, oggi, affida ai suoi presbìteri il doppio compito di evangelisti e di pastori; anzi, soprattutto il compito di evangelisti non è - come ci mostra il Nuovo Testamento - legato esclusivamente ai membri della gerarchia e può essere esteso, sotto la loro guida, ai laici, come oggi avviene. (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) Avrei quindi le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la Messa con l'antico rito. Ma non lo farò, e questo per tre motivi.Primo, perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima. Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell'esercizio pratico della liturgia rinnovata, ma non mi pare tanti presso di noi. Del resto, lo dirò per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum. Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale.In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dal l'insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5, 1-17. Sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile. Certo, c'erano anche allora dei santi, e ne ho conosciuti. Ma l'insieme dell'esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che dà un sapore in più alla quotidianità, di cui si potrebbe fare anche a meno ma che dà più colore e vita alle cose.
In terzo luogo, pur ammirando l'immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l'importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l'adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l'Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni né suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli.
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Eminenza, qual è il Suo ricordo degli anni del Concilio?Conservo soprattutto il ricordo dell'atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva. Ho trascorso durante il Concilio gli anni migliori della mia vita, non solo e non tanto perché avevo meno di quarant'anni, ma perché si usciva finalmente da un'atmosfera che sapeva un po' di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l'aria pura, si guardava al dialogo con tante altre realtà, e la Chiesa appariva veramente capace di affrontare il mondo moderno. Tutto questo, lo ripeto, ci dava una grande gioia e una forte carica di entusiasmo.Secondo Lei, che cosa rimane oggi di quegli anni?
Sono rimaste senz'altro molte cose. Prima di tutto c'è da dire che quelli che l'hanno vissuto hanno fatto un passo importantissimo per la loro vita, perché hanno ricevuto dal Concilio una fiducia rinnovata nelle possibilità della Chiesa di parlare a tutti. Poi restano molti elementi contenuti nei vari documenti conciliari: penso alla liturgia, all'ecumenismo, al dialogo con le altre fedi, alla riflessione sulla Scrittura. Per la nostra Chiesa una grande ricchezza che mantiene intatta tutta la sua attualità e tutto il suo valore.
E invece a Suo giudizio che cosa si è perso?
Non è facile rispondere. Ci sono state certamente un po' di deviazioni, ma soprattutto all'estero, non qui da noi in Italia. Direi che ciò che si è perso è proprio quell'entusiasmo, quella fiducia di cui parlavo prima, quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia. Si è tornati un po' alle acque basse, a una certa mediocrità.
(continua - fai il download dell'intera intervista)
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Quella mattina dell'11 ottobre quindi ero presente anch'io. La cerimonia di apertura fu quella di un'assurda liturgia barocca. Il padre Yves Congar, uno dei teologi più influenti nella redazione dei documenti conciliari, nel suo diario ne fa una descrizione impietosa, dalla quale copio qualche frase, con le peculiarità grafiche dell'originale:
Alle 8.35 si sente dagli altoparlanti il rumore lontano di una mezza marcia militare. Poi si canta il Credo. Io son venuto qui PER PREGARE, pregare CON, pregare IN. In effetti ho pregato molto. Tuttavia, per ammazzare il tempo, una corale intona in successione tutto, non importa cosa, i canti più conosciuti: Credo, Magnificat, Adoro te, Salve Regina, Veni Sancte Spiritus, Inviolata, Benedictus [...] Dapprima si canta un po' assieme, ma ci si stanca [...] Si sentono gli applausi in piazza San Pietro. Il papa dovrebbe avvicinarsi. Senza dubbio fa il suo ingresso. Io non vedo niente, messo come sono dietro sei o sette file di talari salite sulle sedie. A tratti, nella basilica, applausi, ma né grida, né parole. Canto del Veni Creator, a cori alterni con la Sistina, che non è che un corpo d'opera. DA SOPPRIMERE. Il papa con voce ferma canta i versetti e le preghiere. La messa comincia, cantata esclusivamente dalla Sistina: alcuni pezzi di gregoriano (?) e di polifonia. Il movimento liturgico non è penetrato fino alla Curia romana. Quest'immensa assemblea non dice niente, non canta niente. Si dice che
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Il titolo del capitolo deriva da una discussione in corso nella Chiesa cattolica circa la valutazione da dare al Concilio Vaticano II, indetto da papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959. Lo stesso pontefice lo aprì l'11 ottobre 1962 per una prima sessione (autunno 1962), e Paolo VI lo continuò per altre tre sessioni (autunno 1963, autunno 1964, autunno 1965), concludendolo l'8 dicembre 1965.
C'è chi ha visto in questo Concilio un 'evento', considerando che ha talmente innovato la mentalità della Chiesa cattolica da non poterla più considerare uguale a quella dei tempi anteriori. (fai il download dell'intero testo)
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(...) La festa è come un segno di quell'aldilà che è il cielo. è il simbolo di quello a cui l'umanità aspira: un'esperienza di comunione.
La festa esprime e rende presente in modo tangibile la finalità della comunità. è quindi un elemento essenziale della vita comunitaria. Nella festa, le irritazioni nate dal quotidiano sono spazzate via: si dimenticano i piccoli litigi. L'aspetto estatico (l'estasi è «uscire da se stessi») della festa unifica i cuori; una corrente di vita passa. è un momento di meraviglia in cui la gioia del corpo e dei sensi è legata alla gioia dello spirito. è il momento più umano e anche il più divino della vita comunitaria (...) (fai il download dell'intero contributo)
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Un sogno di Ioséf
di Erri De Luca, Penultime notizie circa Ieshu/Gesù, 26-29
«Lui ci ha fatto, e di lui noi siamo»: questo dice il Salmo numero cento, caro maestro Ioséf. Ci ha fabbricato fragili, di argilla, perciò più di così non possiamo pretendere da noi. Ci deve bastare sapere: «di lui noi siamo», apparteniamo alle sua onnipotenza.
Avete di certo ragione, l'età che v'imbianca la barba ha visto e conosce più cose di me. E vi sono riconoscente per avere accolto me e mia moglie Miriam accanto al vostro fuoco. La mia difficoltà è che non riesco a credere alla sua volontà di imporci tutti questi affanni. I romani occupano il nostro suolo, mettono il loro Giove sopra il tempio di Gerusalemme, crocifiggono i nostri giovani che si ribellano. E ci impongono tasse su tasse. Ora pure questo censimento obbligatorio in pieno inverno: devo portare su sentieri di fango e di neve mia moglie incinta all'ultimo mese. Non posso credere che tutto è opera della sua volontà. Lo dico per difendere il nostro Elohìm, non per accusarlo (...)
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tratto da Erri De Luca, Penultime notizie circa Ieshu/Gesù, 20-25
Indagine su un falegname
(...) L'albero è forza verticale di natura, spinta dal suolo a sollevarsi in alto. Somiglia alla postura della specie umana. (...) Lui è falegname, un mastro di alberi e di tagli, un fornitore di arnesi per la comunità. Gesù nasce in una stalla, ma cresce in una bottega di artigiano. Le sue mani diventano larghe a forza di stringere manici, sono ammaccate a forza di martello, hanno unghie spezzate, sono dure di schegge incarnite, di calli lubrificati con lo sputo. La sua saliva prodigiosa prima di sanare lesioni, si seccava sul palmo migliorando la presa delle dita. L'interno delle sue mani ha il colore cupo del tannino che penetra nei pori mischiandosi al sudore. La sua faccia ha occhi abituati a stare stretti contro i frantumi di lavorazione che schizzano anche al volto. Il suo naso fiuta le resine, le colle, il grasso e il bitume e la canapa e il sudore di ascelle. Cresce di peso e forza, ha di certo appetito, ha gusto per il pesce; meno per la carne. E' di Nazareth in Galilea (...)
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Tempo di crisi: economica, finanziaria, politica, e così via.
Ma negli ultimi anni si sta parlando comunemente, e sempre più di frequente, della crisi della chiesa, nel suo complesso: in genere limitandosi a leggere in chiave sociologica questo concetto, mentre a ben vedere si tratta di una connotazione fortemente teologica.
E senza considerare che la condizione di crisi, per i cristiani, dovrebbe essere una situazione - per dir così - normale. In un testo preparatorio alla conferenza del Consiglio missionario internazionale (IMC) di Tambaram del 1938, il missiologo evangelico olandese Hendrick Kraemer proponeva tale idea nei seguenti termini: "Rigorosamente parlando, si dovrebbe dire che la chiesa si trova costantemente in uno stato di crisi e che il suo più grave limite è che ne è consapevole soltanto di tanto in tanto". Cosa che avviene, proseguiva, a motivo della "tensione permanente fra la (sua) natura essenziale e la sua condizione empirica".
Perché allora questo elemento di crisi e di tensione lo percepiamo solo di tanto in tanto?
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La recente Istruzione Universae Ecclesiae accentua ulteriormente i motivi di perplessità che il motu proprio Summorum Pontificum del 2007 aveva aperto in larga parte del corpo ecclesiale. Soprattutto perché inaugura una fase nuova, nella quale non si intende tanto rispondere a una domanda esistente, quanto addirittura suscitarne una per ora assente! Questo a me pare sia oggi l'elemento pastoralmente piú preoccupante. Se i vescovi non possono piú controllare la forma rituale delle celebrazioni nella propria diocesi e se, nel frattempo, un gruppo stabile può essere costituito da cristiani appartenenti anche a diocesi diverse, allora è evidente come il nuovo documento approfondisca il disagio e il disorientamento del popolo di Dio, a cominciare dai vescovi.
riformare la riforma
Da un certo punto di vista Universae Ecclesiae non sembra tener conto dei tre anni di sperimentazione che il motu proprio richiedeva. E qui occorre essere molto chiari: delle due l'una. O i vescovi che hanno mandato alla fine del 2010 le loro relazioni sui tre anni di esperimento del motu proprio si sono limitati a fare complimenti senza esprimere il disagio vissuto dalle loro diocesi; oppure gli organi preposti alla ricezione delle reazioni hanno registrato e valorizzato soltanto quelle (poche) favorevoli. In ogni caso si tratta di una grave sconfitta per la comunicazione e per la parresia all'interno della Chiesa, con l'affermarsi di uno stile clericale che separa realtà e rappresentazione, creando a dismisura finzioni giuridiche e fatti illusori. (...)
La presenza del «rito extraordinario» è talmente marginale e irrilevante che non può creare il problema di un «nuovo rito comune». In realtà risulta fin troppo palese il disegno di gonfiare il rito extraordinario al punto tale da dover poi invocare un «nuovo rito comune» per sanare il male fatto. (...)
Vorrei chiarire un ultimo punto problematico di tutta questa infelice operazione con cui si cerca di rimettere in piedi ciò che per il 99% dei cristiani è ormai chiuso in una storia che è finita. In nessun modo si possono mettere sullo stesso piano due forme rituali di cui la seconda è nata per rimediare alle povertà, alle fragilità e alle distorsioni della prima. (...)Me lo spiegherà qualcuno prima o poi come si possa aderire alla Riforma con un atto che di fatto la smentisce e la riduce a un optional? Alla fine bisogna riconoscerlo apertamente: in campo liturgico dovremmo tutti dedicarci alle cose serie, evitando di coltivare disegni nostalgici certamente senza vita e senza futuro, talvolta anche senza pudore e senza dignità. (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) La Chiesa indivisa ha saputo cogliere nella Parola di Dio contenuta nelle Scritture sante la fonte viva della vita spirituale del credente, l’autentica vita secondo lo Spirito.
Spirito che, entrato nel credente attraverso il battesimo, nutre e fa crescere la vita divina nel cristiano alimentato dalla Parola. Gregorio Magno aveva espresso questa verità spirituale con una formula icastica: Scriptura crescit cum legente, la comprensione della Scrittura si accresce con la maturazione spirituale di colui che la legge e la interpreta.
Ma la lettura della Scrittura, soprattutto nella tradizione delle Chiese d’Oriente, è sempre una lettura nello Spirito, e quindi anche nella comunità dei credenti radunata dallo stesso Spirito, in unità vivente tra adempimento dei comandamenti, preghiera e rendimento di grazie nella liturgia. La lectio divina è l’incontro con una persona viva, con Dio stesso che parla, per questo, secondo i padri, presuppone un certo grado di maturità spirituale e non può essere svincolata da una vita di ascesi interamente orientata a Dio: «Qualunque cosa tu faccia, appoggiati sulla testimonianza delle sante Scritture», diceva Antonio, il padre dei monaci.
Se le parole della Scrittura sono “spirito e vita” (Gv 6,63), la conoscenza che scaturisce dalla Scrittura è “insegnamento dello Spirito”, è conoscenza rivelata ai “piccoli” (cf. Mt 11,25-27) ed è frutto di interpretazione spirituale. La Scrittura stessa rimanda il lettore allo Spirito santo come proprio principio ermeneutico. «è in essa che si comprende lo Spirito», scrive Massimo il Confessore indicando la Scrittura come principio di trasfigurazione, di divinizzazione. Dal canto suo, Gregorio Magno afferma che la Scrittura è “interprete di se stessa”...
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(...) Strettamente connessa con la prudenza - prosegue san Tommaso - è la eubolia, la rectitudo consilii, cioè la capacità di ben consigliare.
Non esiste decisione saggia, prudente, se precedentemente non c'è stato un processo di consiglio. Questo processo implica due cose: la capacità di ben consigliare in coloro che sono chiamati a dare consiglio, e la docilità in coloro che devono rendersi disponibili a quanto viene consigliato.
L'Aquinate sottolinea l'importanza di questa docilità che è pure parte integrante della prudenza, per chi ha delle responsabilità. Nessuno, infatti, è in grado di avere sempre la conoscenza sufficiente e globale della situazione su cui deve decidere e per questo ha bisogno della collaborazione di persone sperimentate e prudenti che lo aiutino.
E poiché, sempre secondo san Tommaso, la prudenza e la capacità di consigliare sono proprie di tutti i cristiani, anche i nostri Consigli fanno appello a tale capacità di consigliare, per il bene della comunità. (continua - fai il download dell'intero testo)
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Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome "chiaro di luna".
Volevi esserci Tu, in noi, per qualche ora, stanotte.
Tu hai voluto incontrare,
attraverso le nostre povere sembianze,
attraverso il nostro miope sguardo,
attraverso i nostri cuori che non sanno amare,
tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo.
E poiché i Tuoi occhi si svegliano nei nostri e il tuo Cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi in noi come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi.
Allora il bar non è più un luogo profano, quell'angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle.
Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati
la cerniera di carne, la cerniera di grazia,
che lo costringe a ruotare su di sé, a orientarsi suo malgrado e in piena notte
verso il Padre di ogni vita.
In noi si realizza il sacramento del Tuo amore.
Ci leghiamo a Te con tutta la forza della nostra fede oscura;
con la forza di questo cuore che batte per Te,
Ti amiamo, li amiamo, perché si faccia di noi tutti una cosa sola.
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(...) Tu, Signore, devi prendermi «per sonno». Di giorno, sto all'erta. Ho imparato a difendermi da Te. So come ci si difende dal Tuo Vangelo, specialmente dalle pagine più scomode. Con le armi del buonsenso e della cultura riesco a neutralizzare i Tuoi paradossi. E se qualche Tuo colpo arriva fino a me, trovo il modo di renderlo innocuo, inserendolo in un casellario appositamente approntato, dove tutto viene sistemato, ogni cosa al proprio posto, ogni idea in ordine, nulla deve darmi fastidio. Di notte, invece, sono costretto ad abbandonare la difesa. A smantellare i bastioni della «ragionevolezza». è quello il Tuo momento, Signore! Approfittane. Prendi in mano le briglie che di giorno ho preteso stoltamente di tenere strette tra le mie dita. Suggeriscimi le cose giuste. Dimmi ciò che devo fare. Ricostruiscimi, mentre dormo. (continua - fai il download dell'intero testo).
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(...) Da tempo gli psicologi e i sociologi ci segnalano la fine di quelle che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk chiama le «banche dell’ira», ovvero le istituzioni che permettevano di mettere a deposito, in modo fruttifero, le frustrazioni, i risentimenti, gli odi, l’ira, suscitate dalle tensioni sociali e personali che attraversano le società moderne, e non solo quelle. Le fondamentali banche dell’ira erano, da un lato, il cristianesimo, ovvero la Chiesa cattolica, in Italia, e l’ideologia socialista e comunista, dall’altro, in Europa. Rinviando gli individui frustrati al Regno dei Cieli o alla società socialista o comunista, si raccoglieva il risparmio delle persone e lo si metteva a frutto, erogando in futuro un credito che maturava, come ci ricorda in un capitolo del suo libro Marco Revelli (Poveri, noi, Einaudi). Nella disgregazione di queste istituzioni, che hanno perso la loro presa sulla società, non ci sono più contenitori capaci di mantenere la pentola in ebollizione senza però farla esplodere. Il rancore e il risentimento sono il vero mood della società postmoderna che consuma le proprie energie frustrate nella microconflittualità... (continua - fai il download dell'intero articolo).
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«Mira il tuo popolo, o bella Signora...». In questi giorni di maggio mi sono ritrovato anch'io, al termine delle «funzioni» (si chiamano ancora così? Spero vivamente di no) mariane, a cantare il classico inno. E a chiedermi all'improvviso che cosa mai stessi dicendo... (continua - fai il download dell'intero articolo).
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(...) Come accade sempre allorché le idee (anche buone) si trasformano in slogan perdendo per ciò stesso ogni sfumatura, gli zelanti epigoni pontifici hanno bandito una sorta di «crociata delle certezze» in cui qualunque elemento proveniente dall'apparato ecclesiastico - e preferibilmente quelli più «tradizionali» - diventa una «verità definitiva», un «assoluto», appunto un «valore irrinunciabile». Ma il vitello d'oro è sempre in agguato; e direi che oggi parla volentieri in latino. Infatti la Chiesa (e per riflesso il suo clero) si appropriano spesso di attributi che spettano solo a Dio: l'immutabilità, l'onniveggenza, l'impossibilità di sbagliare, la capacità di astrarre dalle contingenze della storia e delle passioni, e così via. Ma, se è vera l'affermazione di don Lorenzo Milani per cui «si può essere eretici per eccesso tanto quanto per difetto», io vorrei allora invocare la Santa Inquisizione - per scherzo, eh! - non solo sui malvagi progressisti, o sui soliti catto-comunisti; ma anche sui tradizionalisti per i quali «il Concilio di Trento e poi più»; sui buoni borghesi che «i riti di una volta, quelli sì che davano il senso del sacro!»; sui gattopardi secondo cui il Vaticano II è soltanto un cambiamento perché nulla cambi davvero; su quanti si arroccano nelle forme di una presunta «purezza cattolica» quasi fosse un castello intangibile; su coloro che vestono la talare come una corazza e invocano la preminenza del celibato sugli altri stati; sui vescovi che considerano verità di fede le proprie interviste e sui laici che li rincorrono di continuo per cercarvi sicurezze... (continua - fai il download dell'intero articolo)
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Non si tratta di tornare a vivere in modo legalistico e meritorio delle “osservanze”, ma di praticare, di mettere in atto alcune opzioni che, proprio in quanto sono d’aiuto alla vita cristiana, sono anche una prassi in vista di una maggior qualità di vita umana e di convivenza sociale.
Vorrei allora proporre un itinerario per la quaresima, cercando di meditare su alcuni atteggiamenti indicati dalla grande tradizione ecclesiale come distintivi di questo tempo forte: il leggere, il silenzio, il digiuno, l’astinenza, la lotta spirituale, la condivisione.
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Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. è per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l’individuo ma anche per la collettività.
Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all’ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della vergogna.
E quest’opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall’ethos...
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Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un’etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell’indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L’indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall’ingiustizia, come l’odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l’indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur...
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Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità. L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico...
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto. Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce. Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà - quasi sempre con prepotenza - all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna...
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Ma non fu così facile. Fino dalle Passiones dei martiri del II-III secolo, i "neri" (egizi, nubiani, etiopi) erano per il loro aspetto e il loro colore associati al diavolo. Neri erano raffigurati sovente gli infedeli al tempo delle crociate, come si vede in un mosaico di Vercelli e in molte miniature che narrano degli scontri epici tra guerrieri cristiani e saraceni. Anche lì, l’equivalenza nero-infedele-mostruoso-demoniaco era evidente.
La Chanson de Roland proclama che i nemici della fede sono «neri e cornuti come diavoli». Solo nel Basso Medioevo ebbe speciale impulso il culto di un gruppo di martiri-soldati dell’età di Diocleziano, la Legione Tebana, che provenivano dalla città di Tebe nell’Egitto meridionale, oggi Nubia. Si trattava quindi di nubiani, dalla pelle nera. Il nome del loro capo, ignoto, fu quindi Mauritius, cioè "il Mauritano", "il Nero". Inoltre, cominciavano allora a circolare notizie riguardanti il misterioso imperatore degli etiopi, il Negus, con il quale s’identificava la favolosa figura del "Prete Gianni", di cui parla anche Marco Polo, ma che fino ad allora era stato situato in Asia centrale.
Queste nuove tradizioni, che portavano gli uomini dalla pelle nera all’attenzione della cristianità europea, determinarono l’inserimento di uno di loro nel corteo dei re magi: come re d’Africa e della "razza camita", e in genere il più giovane dei tre. Il giovane "mago nero" è figura costante nelle scene d’adorazione medievali e rinascimentali più celebri. Tra esse, due del Mantegna e una nel "Trittico dell’Adorazione" di Hieronymus Bosch oggi conservato al Prado.
Con lo sviluppo del colonialismo e l’avvio della "tratta degli schiavi", anche i "santi-negri" si moltiplicarono...
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(...) Accettare questa solidarietà apre lo spazio per l’assunzione di responsabilità. è questa la chiave che spiega la recente - e purtroppo anche tardiva - evoluzione dell’atteggiamento delle autorità ecclesiali. Si tratta di un vero cammino di purificazione: non temere l’umiliazione di confessare le colpe e il rischio di subire accuse anche ingiuste, avanzare su un percorso di giustizia e, di fronte a comportamenti aberranti, chiedere insieme perdono alle vittime.
è una strada non priva di vergogna e di dolore, ma è l’unica che si presenta oggi alla Chiesa nel suo insieme, una strada che dall’umiliazione porta all’umiltà (da humus, terra: stare con i piedi per terra, nella realtà, non nascondersi dietro una falsa immagine di sé). Il pentimento e la richiesta di perdono non sono una scorciatoia per sviare l’attenzione dalla giustizia e dai processi, come insinua una lettura caricaturale di queste ammissioni; sono la strada per non farsi immobilizzare dal senso di colpa, come singoli e come istituzione.
Esiste infatti una grande differenza tra il concetto di senso di colpa e quello di pentimento, anche se comunemente essi vengono sovrapposti. Il senso di colpa rimane concentrato (e paralizzato) sull’errore che non si sarebbe dovuto compiere, in quanto minaccia alla nevrotica immagine idealizzata di perfezione di sé. La vergogna che esso genera fa assumere una maschera e falsifica la comunicazione, che a volte può addirittura venire evitata, in particolar modo con le vittime dei propri sbagli. Questo rivela il carattere narcisistico ed egoistico del senso di colpa, che conduce a preoccuparsi più della propria immagine che delle ferite e dell’ingiusto dolore degli altri. Nel pentimento, invece, si smette di cercare giustificazioni pretestuose, si fa verità riconoscendo il male compiuto come tale e se stessi come responsabili, ed emerge una reale preoccupazione per le conseguenze, a cui si cerca il modo per riparare. Solo se si abbandona la ricerca ossessiva di come liberarsi del senso di colpa, diventa possibile aprirsi al futuro, nell’impegno di evitare di ripetere gli errori compiuti, come da sempre la Chiesa propone a chi si accosta al sacramento della riconciliazione.
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Incominciava a sentirsi agitata il martedì sera. Dormiva male, preoccupata che qualche complicazione negli affari impedisse a Jalil di venire il giovedì, nel qual caso lei avrebbe dovuto aspettare ancora un'intera settimana prima di vederlo. Il mercoledì continuava a girare attorno alla kolba, gettando distrattamente il mangime nella stia delle galline. Faceva passeggiate senza meta, cogliendo petali di fiore e dando manate alle zanzare che le pizzicavano le braccia. Infine, il giovedì, non poteva far altro che sedersi contro il muro, con gli occhi incollati al torrente, e aspettare. Se Jalil era in ritardo, a poco a poco si lasciava prendere dal panico. Sentiva le ginocchia piegarsi e doveva andare a stendersi.
Poi Nana la chiamava: «Eccolo, tuo padre. In tutto il suo splendore».
Mariam balzava in piedi quando lo scorgeva..
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è certamente un segreto di gioia che la potrebbe riempire di letizia, tuttavia è anche imbarazzante e doloroso. Il Vangelo di Matteo ci fa capire il peso di questo annuncio: come spiegare a Giuseppe, suo sposo, ciò che è avvenuto, come renderlo credibile, come far capire il mistero di Dio che si è manifestato in lei?
Maria si trova nella situazione di chi, avendo qualcosa di grande dentro di sé, che gli dà gioia e insieme peso, vorrebbe comunicarlo, vorrebbe farsi capire e non sa né a chi dirlo né come. In questa solitudine, pensosa e dolorosa, percorre la strada verso la Giudea per andare ad aiutare Elisabetta.
Capita tante volte anche a noi di avere qualcosa dentro e non riuscire a trovare nessuno con cui comunicare davvero; non abbiamo fiducia che qualcuno possa capire e ascoltare ciò che di gioioso o di doloroso sentiamo.
Maria si avvia verso la montagna di Giuda e, entrando nella casa di Zaccaria, saluta Elisabetta. «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: "Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!"».
Improvvisamente, senza bisogno di parole, Maria si sente capita, sente che il suo segreto è stato colto da chi poteva intuirlo nello Spirito Santo, sente che ciò che è avvenuto in lei, il mistero di Dio, è ormai inteso da altri, ed è inteso con amore, con benevolenza, con fiducia. Si sente accolta e capita fino in fondo e può dare sfogo a tutta la pienezza dei sentimenti che fino a quell’istante erano rimasti come compressi. Ora che un’altra persona ha potuto intuire il suo segreto, Maria si sente liberata interiormente e può esclamare a gran voce ciò che ha dentro; può esprimersi, attraverso un’amicizia discreta e attenta, attraverso un cuore capace di comprenderla. Ed ecco erompere, tutto d’un pezzo, il suo canto che proclama ciò che aveva meditato per lungo tempo, durante il viaggio.
Quanto è importante il valore di un’amicizia che ci capisca e che ci aiuti a sbloccarci, che ci permetta di mettere fuori ciò che abbiamo dentro, di bello o forse di brutto, purché sia espresso, purché sia detto! Maria sì esprime cantando ed esultando perché il suo animo è pieno di gioia.
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C'era evidentemente il peso di un passato, oramai superato, e che avrebbe dovuto essere affrontato. C'era l'obbedienza a una situazione storica di altri tempi che continuava a giocare il suo ruolo servendosi o della pigrizia dei cristiani, che è molta, o del potere misterioso che hanno i tabù nelle tradizioni secolari e nelle culture mitiche. Qual era stata la volontà di Gesù nell'istituzione dell'Eucarestia?
Aveva chiesto il celibato o aveva chiesto: «Fate questo in memoria di me»? La volontà celibataria spinta all'inverosimile negli ultimi secoli, specie dai religiosi, non aveva finito per travisare la stessa volontà del Cristo? Tra il celibato obbligatorio che riduce il numero dei preti e la necessità di non lasciare le comunità senza Eucarestia, qual è la scelta da fare? La comunità non ha diritto all'Eucarestia? Perché negargliela solo perché non ha un celibe disposto a essere prete?
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Un uomo che non frequenta donne è un uomo senza. Non è un uomo e basta, nient'altro da aggiungere. E' un uomo senza. Può dimenticarselo, ma quando si ritrova davanti, lo sa di nuovo. "Ci penserò". Era vero, pensava alla donna, alla sua volontà di cavargli una storia, a lui che all'osteria stava a sentire quelle degli altri e alla domanda "E tu?" rispondeva alzando il bicchiere alla salute dei presenti, per inghiottire la risposta. Se insistevano, tirava di tasca la sua armonica a bocca e ci soffiava dentro la musica. Non poteva aggiungere la sua storia alle loro. Di ogni cosa narrata dagli altri, lui aveva fatto peggio. Rischi, disavventure, spietatezze, dai racconti degli altri sapeva di essere il peggiore. Alla donna non poteva rispondere col fiato nell'armonica. Ci pensava.
A sessantanni il suo corpo era accordato bene, compatto come un pugno. E la donna com'era? Come la mano aperta al gioco della morra cinese, la mano che vince perché si fa carta intorno al sasso e lo avvolge. La donna era la carta in cui finiva chiusa la sua storia. (continua - fai il download dell'intero testo)
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Tuttavia la Passione comporta pure delle profonde sofferenze morali e umiliazioni. Gesù infatti ha messo in gioco per noi il suo onore, lo ha perduto volentieri: onore di uomo, di fedele ebreo, di suddito leale dell' autorità romana, il suo onore di Messia, di re d'Israele, di Figlio di Dio.
Tenendo presenti in particolare le umiliazioni, rileggo i testi della Passione, cominciando dalle predizioni. (continua - fai il download dell'intero testo)
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Se per un attimo osiamo toglierti l'aureola, è perché vogliamo vedere quanto sei bella a capo scoperto. Se spegniamo i riflettori puntati su di te, è perché ci sembra di misurare meglio l'onnipotenza di Dio, che dietro le ombre della tua carne ha nascosto le sorgenti della luce. Sappiamo bene che sei stata destinata a navigazioni di alto mare. Ma se ti costringiamo a veleggiare sotto costa, non è perché vogliamo ridurti ai livelli del nostro piccolo cabotaggio. è perché, vedendoti così vicina alle spiagge del nostro scoraggiamento, ci possa afferrare la coscienza di essere chiamati pure noi ad avventurarci, come te, negli oceani della libertà.
Santa Maria, donna feriale, aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia non è quello che ti pone all'interno della Bibbia o della patristica, della spiritualità o della liturgia, dei dogmi o dell'arte. Ma è quello che ti colloca all'interno della casa di Nazaret, dove tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli della Scrittura, hai sperimentato, in tutto lo spessore della tua naturale femminilità, gioie senza malizia, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni.
Santa Maria, donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell'epopea, e insegnaci a considerare la vita quotidiana come il cantiere dove si costruisce la storia della salvezza. Allenta gli ormeggi delle nostre paure, perché possiamo sperimentare come te l'abbandono alla volontà di Dio nelle pieghe prosaiche del tempo e nelle agonie lente delle ore. E torna a camminare discretamente con noi, o creatura straordinaria innamorata di normalità, che prima di essere incoronata Regina del cielo hai ingoiato la polvere della nostra povera terra. (fai il download dell'intero testo)
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Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi inguaribilmente malati di magniloquenza.
Abili nell'usare la parola per nascondere i pensieri più che per rivelarli, abbiamo perso il gusto della semplicità. Convinti che per affermarsi nella vita bisogna saper parlare anche quando non si ha nulla da dire, siamo diventati prolissi e incontinenti. Esperti nel tessere ragnatele di vocaboli sui crateri del "non senso", precipitiamo spesso nelle trappole nere dell'assurdo come mosche nel calamaio. Incapaci di andare alla sostanza delle cose, ci siamo creati un'anima barocca che adopera i vocaboli come fossero stucchi, e aggiriamo i problemi con le volute delle nostre furbizie letterarie.
Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi peccatori, sulle cui labbra la parola si sfarina in un turbine di suoni senza senso. Si sfalda in mille squame di accenti disperati. Si fa voce, ma senza farsi mai carne. Ci riempie la bocca, ma lascia vuoto il grembo. Ci dà l'illusione della comunione, ma non raggiunge neppure la dignità del soliloquio. E anche dopo che ne abbiamo pronunciate tante, perfino con eleganza e a getto continuo, ci lascia nella pena di una indicibile aridità: come i mascheroni di certe fontane che non danno più acqua e sul cui volto è rimasta soltanto la contrazione del ghigno.
Santa Maria, donna senza retorica, la cui sovrumana grandezza è sospesa al rapidissimo fremito di un fiat, prega per noi peccatori, perennemente esposti, tra convalescenze e ricadute, all'intossicazione di parole. Proteggi le nostre labbra da gonfiori inutili. (fai il download dell'intero testo)
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Ecco l'imprevisto, l'incidente inatteso. Quello che cambia tutto.
Se questa pietra, che sigilla una tomba, non sta al suo posto, più niente è al suo posto. Se non c'è ordine neppure in un cimitero, allora davvero ogni cosa è sconvolta. Se perfino i segni intoccabili della morte sono stati manomessi, non ci si ritrova più da nessuna parte.
Le cosiddette "pulizie di Pasqua" sono diventate una scadenza ineludibile. Anche per la nostra anima. Ma la Pasqua, così come viene descritta dal Vangelo, non è elemento di ordine, bensì di disordine. La Risurrezione del Signore è "perturbatrice" dell'ordine così come l'abbiamo stabilito noi. Ha ragione il mio amico A. Maillot: «La Pasqua è Anarchia».
La Pasqua getta lo scompiglio in tutto, confonde, sconvolge ogni cosa: gioia, tristezza, ragionevolezza, speranza, possibilità.
«Né la morte né la vita sono più quello che sono state finora. Nessuna persona è semplicemente quello che vediamo. E io stesso non sono più io» (A. Maillot). (continua - fai il download dell'intero testo)
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Giuseppe pensò: perché lui dice queste cose a me, che vede per la prima volta? è vero, talvolta persone del tutto estranee confidavano a lui le proprie angosce nascoste. Venivano per ordinare un aratro o un vomere, d'un tratto si sedevano e raccontavano le loro afflizioni. Chiedevano consiglio. A lui, che viveva nel silenzio e conosceva così poco la vita! Ma quelli erano gente semplice. Per loro il naggar rinomato per la sua bravura era un'autorità. Zaccaria però era un sacerdote, un uomo d'esperienza...
Con uno sforzo, come se cercasse di sollevare un grande peso, incominciò:
— Non tocca a me parlare di questo, Zaccaria... — allargò perplesso le braccia.
— Non conosco il mondo, non conosco la vita. Anch'io ho sentito un rabbi affermare che l'Altissimo creando Eva da una costola di Adamo ha dimostrato di considerare poco la donna, in quanto la costola è una parte poco nobile del corpo umano. Si dice: la donna è stata creata per l'uomo, per rendergli più leggera e più piacevole la vita... Eppure sappiamo quanto i nostri patriarchi abbiano amato le loro mogli. Quali eroine siano state Debora e Giuditta. La donna non può esistere soltanto per l'uomo. Nell'amore verso la moglie deve celarsi qualcosa di sacro... Non comprendo bene questo e non sono capace di esprimerlo, ma sono convinto che tramite quest'amore l'Altissimo voleva mostrare qualcosa di grande e di misterioso...
Allargò di nuovo le braccia e guardò come scusandosi il sacerdote.
— Perdona — sussurrò — non riesco a chiarire meglio i miei pensieri...
Zaccaria taceva, ma il suo sguardo era fisso sul viso di Giuseppe.
— Sei giovane — iniziò — eppure hai detto cose non comuni. Parla ancora. Così ritieni che l'Altissimo abbia assegnato un compito tanto grande alla donna?
— Io lo credo! — Giuseppe esplose con calore. — Sono certo che un giorno Egli la eleverà e la porrà accanto a sé. Non riuscirei ad amare una donna soltanto per il fatto che è per me...
— E proprio così ami tua moglie?
Abbassò gli occhi improvvisamente vergognoso di non confermare con la vita le sue parole.
— Non ho ancora una moglie...
— Non ce l'hai? Eppure sei negli anni in cui un uomo dovrebbe essersi ormai scelto la compagna.
— Sto aspettando... — sussurrò.
Il sacerdote assentì col capo.
— Questo significa che non hai trovato finora colei alla quale potresti offrire i tuoi affetti? Comprendo. Ti aspetti molto e vuoi dare molto... Continua ad aspettare. Non affrettarti nella scelta. Troverai la ragazza degna del tuo amore e delle tue speranze. (continua - fai il download dell'intero testo).
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La differenza con l'istituto della teoria generale del diritto è data dal fatto che nella Chiesa il voto consultivo non dovrebbe tradurre (e di per sé non traduce) istituzionalmente una limitazione di potere, decisa da chi possiede il voto deliberativo, bensì una necessità inerente alla dinamica della comunione. Ciò dipende dal fatto che la chiesa particolare (per fare un solo esempio) non è costituita solo dal vescovo con il presbiterio, ma anche da una porzione di popolo di Dio.
Bisogna allora tener conto del fatto che il sacerdozio comune di tutti i fedeli è primario rispetto a quello ministeriale, nel senso che quest'ultimo esiste solo in funzione del primo, di cui perciò deve tener conto nella formazione del proprio giudizio, secondo modalità consultative che possono storicamente cambiare. (continua - fai il download dell'intero testo).
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Siamo in piena Genesi: si produce una vasta ondata d’energia, un fantastico ringiovanimento dell’essere. E’ come se avvenisse una nuova partenza: l'essere di prima non è soppresso, nasce una seconda volta, riparte con una gloria rinnovata. Sgorgato da non si sa dove, un enorme flusso di sostanza investe i giovani, li riplasma da cima a fondo. Si sentono totalmente ricreati, ma sono anche totalmente ricreatori, dispensatori non meno che beneficiari di questa grazia sovrana. Il potere onnipotente che li assale conferisce loro ogni potere di assalire, e questo in un clima indimenticabile di dolcezza, di tenerezza e di umiltà. La sessualità è un'invenzione divina per incarnare l'amore, per suscitare nel più profondo della creatura le condizioni per il dono creatore.
Per amare bisogna essere due e non più di due: ci si presta a molti, ci si dona solo a un altro. Da questi due sorge non un terzo, ma l’autentico uno: quello che non fa numero perché è l'altro assoluto. L’altro relativo, il compagno, estrae ogni essere da lui stesso: provocando l'uscita dall'io, realizza la disappropriazione della persona. Ci si dimentica nell'altro e ci si dimentica insieme, il che evita l'incrociarsi di due egoismi nella scorciatoia di un falso spossessamento. Viene a instaurarsi una nuova condizione in cui si vive nell’altro, e grazie all'altro, senza essergli asservito perché l'altro, a sua volta, rifiuta di vivere in sé e per sé e, quindi, di asservire. Utilizza il dono non per rafforzarsi, bensì per donarsi ancor di più. L'offerta nutre l'offerta in una crescente apertura. Tra i due poli sviluppa una tensione oblativa, una circolazione di abbondanza, una corrente di dedizione. I due giovani si insegnano reciprocamente che non sono nulla e che, confessando questo nulla, accedono all'essere. “La vita autentica è altrove - confessa ciascuno dei due - e tu sei questo altrove in cui trovo la mia origine. Tu sei la mia anima, tu mi fai vivere” (...). (fai il download: troverai altre citazioni del libro)
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di p. Renato Kizito Sesana, missionario comboniano – Natale 2003
(...) Stavo facendo queste riflessioni proprio mentre riordinavo le statue per il Presepio che i nostri amici, rifugiati dal Rwanda, mi hanno regalato. Mi è balzato agli occhi che hanno fatto dei Re Magi giovanissimi. Ma i Re Magi non erano anziani? Vado a rileggere i pertinenti passi del Vangelo ed effettivamente riscontro che di loro non sappiamo né il numero, né il sesso, né il colore della pelle, né l'età. Allora chiamo Pierre, lo scultore, il quale alla mia domanda risponde con logica inoppugnabile: "Li ho fatti giovani perché i viaggi lunghi e faticosi li possono fare solo i giovani. Agli anziani se non mancano le forze manca l'entusiasmo. Anche noi, quando siamo fuggiti dal Rwanda addirittura sotto la minaccia di morte, eravamo tutti giovani, gli anziani non se la sentivano di affrontare un lungo viaggio, hanno preferito affrontare il rischio di restare".
Mi piace quest'idea dei Re Magi come giovani entusiasti ed irrequieti, magari in cerca di novità, sotto sotto in cerca di un motivo per vivere. Liberi da impegni di famiglia, si buttano in spalla un borsone, o lo mettono in groppa ad un cammello e via, alla ricerca.
I Magi erano addestrati in astrologia e nell'interpretazione dei sogni. Non tutti i giovani sono degli esperti in sogni? Forse l'evangelista li chiama Magi perché vuole sottolineare proprio il loro sogno e ricerca del senso della vita... (continua - fai il download dell'intero intervento)
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Perché per un cristiano e per ogni cittadino di questo mondo Gerusalemme ha un’importanza unica. è una città che non può essere semplicemente visitata. Gerusalemme chiede di essere "incontrata". E la premessa per incontrare Gerusalemme sono un amore sincero, un rispetto delicato che esigono un’attenzione e un coinvolgimento particolari. Questo affetto è anche partecipazione alle sue sofferenze, alle sue angosce, ai suoi dolori indicibili del passato remoto e prossimo e anche del presente. (continua - fai il download dell'intero testo)
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Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno
La gratitudine dei ministri della Chiesa alla fine dell’anno
di don Tonino Bello
Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. E' perché, purtroppo, molti passi li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue; seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: "Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla". Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto. Grazie, perché obbligandoci a prendere atto dei nostri bilanci deficitari, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. (...) Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno, esigono il nostro rendimento di grazie: (continua - fai il download dell'intero testo)
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L'anno in cui sua madre lo partorì non era santo. I suoi, gli ebrei, avevano per legge di consacrare un anno ogni sette lasciando in pace il suolo. Il suo anno di nascita non apparteneva al ciclo dei sabbatici, al rituale imposto dal verbo shabbàt, cessare.
Non nacque in un momento di allegria, ma durante un viaggio, uno spostamento forzato. Il suo popolo amava i pellegrinaggi e si metteva in cammino volentieri per onorare qualche festività, Pasqua o altre, in Gerusalemme. Ma lui non nacque in un pellegrinaggio. I suoi si spostavano per un dovere triste e insidioso... (continua - fai il download dell'intero testo)
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La gioia è sempre sottolineata: il pastore invita a rallegrarsi con lui e «così ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti». La donna dice: «Rallegratevi con me» e Gesù parla di «gioia davanti agli angeli». Per finire, il padre afferma: «Bisognava far festa e rallegrarsi». Ecco il senso del Dio del Vangelo. Dio ha in mano tutto, è il Signore di ogni cosa, è il Re che governa cielo e terra, ma è capace di perdere la testa per uno solo, non si dà pace, anche per uno solo.
A questo corrisponde l'insegnamento che troviamo, più volte, nelle parole di Gesù: «Guai, se uno solo di questi piccoli viene scandalizzato»; «quando l'avete fatto a uno solo di questi l'avete fatto a me» e - notano giustamente gli esegeti - l'insistenza su «uno solo» è una caratteristica tipica del Vangelo. La gioia di Dio si esprime anche quando una sola persona è stata oggetto della salvezza.
Dobbiamo rifletterci molto per il nostro ministero... (fai il download dell'intero testo)
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Ho detto in un'altra occasione che oggi mi sembra di vedere due Chiese. Chiesa uno e Chiesa due. La Chiesa uno punta sull'identità, la Chiesa due sulla carità. La Chiesa identitaria sottolinea l'importanza dell'appartenenza, la Chiesa della carità punta sulla misericordia. La Chiesa uno è più presente nei mass media, la Chiesa due preferisce lavorare nel silenzio. La Chiesa uno, che guarda con ammirazione ai cosiddetti atei devoti e ne apprezza l'appoggio, rimprovera alla Chiesa due di scendere a eccessivi compromessi con la società secolarizzata fino a perdere ogni specificità cristiana. La Chiesa due, guardata con simpatia dalla cultura progressista che la stima per il suo impegno fra gli ultimi, rimprovera alla Chiesa uno di ricorrere ai valori forti, definiti non negoziabili, per alimentare divisioni ed esclusioni. Anche se scendere sul terreno del confronto con la Chiesa uno è sempre stimolante, è la Chiesa due, per me, quella che possiede oggi una sensibilità conciliare. (fai il download dell'intero testo)
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La nostra chiesa è la più povera delle chiese.
Il vescovo non s’illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che, quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.
Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s’intona assai bene con la Messa e fa meno paurosa la nostra povertà. (fai il download dell'intero testo)
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Ho il sospetto che specialmente lo Spirito Santo ami scherzare, farsi gioco delle nostre previsioni, smentire clamorosamente le nostre sentenze "inappellabili", mandare all'aria i nostri rigidi schemi. Sarebbe interessante scrivere la storia della Chiesa mettendo in evidenza gli scherzi compiuti dallo Spirito, ad esempio suscitando un san Francesco d'Assisi o un papa Giovanni.
"Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano" (Atti degli Apostoli 2,2).
Per favore, non blocchiamo le serrature. Almeno una volta, proviamo ad essere sbadati. Lasciamo socchiuse porte e finestre, in modo che quel vento impertinente le sbatta fragorosamente e irrompa dentro combinando tutti gli scherzi che vuole.
Non facciamolo filtrare semplicemente attraverso... (continua - fai il download dell'intero testo)
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(...) A quei tempi la domenica era ancora «la domenica»: il week-end era parola e prassi sconosciuta, nessuno andava via per gite o viaggi, ma tutti dalla dispersione delle cascine in campagna e dai luoghi di lavoro cercavano di ritrovarsi, di incontrarsi per «fare due parole» e rinnovare così la conoscenza e l’amicizia. In chiesa entravano solo donne, ragazze e qualche raro anziano devoto e così iniziava la messa cantata con molta convinzione e fervore, anche se quella gente semplice di campagna non capiva né quello che cantava in latino né tanto meno quello che, sempre in latino, diceva il prete. Il prete, dopo alcune formule recitate ai piedi dell’altare, saliva gli scalini e cominciava a «dire messa», voltandosi solo per qualche «Dominus vobiscum», cui la gente rispondeva «et cum spiritu tuo», ma cosa dicesse il prete negli oremus o cosa leggesse dal messale nessuno lo sapeva o la capiva. Messalini per i fedeli a quell’epoca non ce n’erano, non li avevano nemmeno le suore: quelli famosi del Caronti o del Lefebvre erano merce rarissima e io, conoscendo bene il latino, ero uno dei pochi che poteva seguire ogni parola. Quanto al Vangelo, il prete lo leggeva dapprima in latino sull’altare, con le spalle girate al popolo, poi si voltava e, recatosi alla balaustra, lo leggeva in italiano per la gente: era quello l’unico testo che tutti capivano, seguito dalla predica in cui trovava spazio ogni genere di ammonizione ed esortazione, attinente più alla situazione e alle vicende locali che non al brano appena letto. Al momento dell’offertorio - ero chierichetto sempre presente - il prete mi mandava fuori sulla piazza a chiamare gli uomini perché entrassero a «prendere messa», altrimenti quella non sarebbe stata più «valida» per loro. Così, mentre le donne recitavano il rosario sottovoce e gli uomini continuavano a parlottare, la messa procedeva spedita, con il prete che bisbigliava tutte le formule. Solo al momento dell’elevazione il campanello avvertiva, svegliava e richiamava tutti: mentre il prete innalzava prima l’ostia poi il calice e si genufletteva, il silenzio si faceva totale e assoluto: chi chinava la testa, chi si metteva in ginocchio, tutti vivevano con grande timore il momento culminante di tutta la messa. Prima della comunione del prete - normalmente l’unico a comunicarsi durante la messa - gli uomini uscivano dalla chiesa e riprendevano i loro capannelli, mentre le donne intonavano canti pii e devoti. (fai il download dell'intero articolo)
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Il Sinodo di una nuova Pentecoste
Se la Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi fu chiamata “sinodo della risurrezione e della speranza” (EIA, 13), i Padri sinodali, in comunione con il Santo padre il papa Benedetto XVI, vedono questa Seconda Assemblea Speciale come il sinodo di una “nuova Pentecoste”.
Grati a Dio, ringraziano il Santo Padre per la provvidenziale decisione di convocare questo sinodo.
I Padri sinodali perciò sono contenti di testimoniare il carattere universale di un’assemblea sinodale alla presenza del Santo Padre, come suoi più stretti collaboratori e rappresentanti della Chiesa dagli altri continenti.
Pregano che lo Spirito della Pentecoste rinnovi la nostra apostolica dedizione ad operare perché la riconciliazione, la giustizia e la pace e l’umanità in generale prevalgano in Africa e nel resto del mondo, mentre non avvenga che gli immensi problemi che gravano sull’Africa ci travolgano, e perché diventiamo “sale della terra” e “luce del mondo”.
Questo esercizio di comunione ecclesiale e responsabilità collegiale ispiri altre strutture e forme di ministero di cooperazione nella Chiesa-Famiglia di Dio. (fai il download dell'intero testo)
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Perché mi sta a cuore la lectio divina
«Che cosa si vuole ottenere in particolare aiutando i giovani a entrare in un contatto vivo con la Scrittura? Si vuole ottenere anzitutto che un giovane si senta interpellato direttamente da Dio, che impari cioè ad ascoltarlo. Non semplicemente che conosca la Scrittura o ascolti un bravo biblista, ma che si senta personalmente interpellato dalla Parola. Quando questo accade, facciamo un’esperienza indimenticabile; basta farla una volta perché si radica nella vita e continua ad attrarci verso la Scrittura. Scrive un esegeta contemporaneo: «Quando una sola parola del Signore per la prima volta interpella il cuore di una persona, lì la grazia del Battesimo diviene santamente operante». E il vivere da cristiano diviene davvero il vivere di fronte al "Tu" di Dio, di Gesù che ci chiama, ci interpella. Allora non abbiamo più bisogno di altre raccomandazioni, di sussidi esterni perché la Parola ha colpito dentro. Allora la risposta di chi si sente interpellato diventa anche risposta vocazionale: «Signore, che cosa vuoi da me?». (...)
Dunque, il nostro desiderio è di aiutare tutti i giovani a lasciarsi interpellare da Dio, a imparare ad ascoltarlo anche (non solo) a partire dalle pagine bibliche dove Dio parla oggi all’uomo nello Spirito, così da rispondergli. E allorché un giovane capisce che le Scritture parlano di lui e a lui, si inizia quel dialogo che non si fermerà più, di cui si sentirà sempre nel profondo del cuore una grande nostalgia. La conoscenza di Gesù e del cristianesimo sarà solida, integrata, non appiccicata, e la persona diverrà essa stessa, in qualche modo, parola di Dio per gli altri». (fai il download dell'intero articolo)
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- Se tu sapessi di che cosa hai veramente bisogno... E anche:
- Sapessi ciò di cui non hai bisogno, nonostante la pubblicità e le mode congiurino per crearti bisogni fasulli.
Sapessi che cosa ti manca per essere uomo, per avere una faccia un po’ più presentabile di cristiano.
Purtroppo credi di aver bisogno di una congerie incredibile di cose inutili, di un cumulo di carabattole. Ne hai bisogno, non puoi farne a meno, e tutti sono disposti ad offrirtele, per nascondere le tue reali necessità, e non prendere coscienza dell’importante, dell’essenziale.
Ti aggrappi al superfluo, per negarti il necessario.
Hai bisogno di Dio, ma insieme hai paura di ammetterlo.
Hai bisogno di tenerezza, però assumi una maschera di durezza.
Hai bisogno di ascoltare, e continui a parlare... (continua)
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«La risolutezza di Maria. è lei che decide di muoversi per prima: non viene sollecitata da nessuno. E lei che s'inventa questo viaggio: non riceve suggerimenti dall'esterno. è lei che si risolve a fare il primo passo: non attende che siano gli altri a prendere l'iniziativa. Dall'accenno discretissimo dell'angelo ha avuto la percezione che la sua parente doveva trovarsi in serie difficoltà. Perciò, senza frapporre indugi e senza stare a chiedersi se toccava a lei o meno dare inizio alla partita, ha fatto bagagli, e via! Su per i monti di Giudea. «In fretta», per giunta. O, come traduce qualcuno, «con preoccupazione». Ci sono tutti gli elementi per leggere, attraverso questi rapidi spiragli verbali, lo stile intraprendente di Maria. Senza invadenze. Stile confermato, del resto, alle nozze di Cana, quando, dopo aver intuito il disagio degli sposi, senza esserne da loro pregata, giocò la prima mossa e diede scacco matto al re. Aveva proprio ragione Dante Alighieri nell'affermare che la benignità della Vergine non soccorre soltanto colui che a lei si rivolge, ma «molte fiate liberamente al dimandar precorre».
Santa Maria, donna del primo passo, ministra dolcissima della grazia preveniente di Dio, «alzati» ancora una volta in tutta fretta, e vieni ad aiutarci prima che sia troppo tardi. Abbiamo bisogno di te. Non attendere la nostra implorazione. Anticipa ogni nostro gemito di pietà. Prenditi il diritto di precedenza su tutte le nostre iniziative. Quando il peccato ci travolge, e ci paralizza la vita, non aspettare il nostro pentimento. Previeni il nostro grido d'aiuto. Corri subito accanto a noi e organizza la speranza attorno alle nostre disfatte. Se non ci brucerai sul tempo, saremo incapaci perfino di rimorso. Se non sarai tu a muoverti per prima, noi rimarremo nel fango. E se non sarai tu a scavarci nel cuore cisterne di nostalgia, non sentiremo più neppure il bisogno di Dio».
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E questo soprattutto nella donna, in cui il legame con il corpo e con la pulsione riproduttiva è più forte di quanto non lo sia nell’uomo. E quindi più incerto il confine del riconoscimento di sé come quella certa individualità da non confondere con le altre.
Il pudore allora non è una faccenda di vesti, sottovesti o intimo abbigliamento, ma una sorta di vigilanza dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Si può infatti essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della propria anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla sulla nostra disponibilità all’altro. Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti e dallo sguardo degli altri irrimediabilmente oggettivati, il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri. E qui l’intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che se «essere in intimità con un altro» significa «essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro», nell’intimità occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si dissolva quel mistero che, interamente svelato, estingue non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità che a quel punto non è più disponibile neppure per noi. (fai il download dell'intero articolo)
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Ella quindi compie un itinerario, nel quale si delineano i diversi livelli del servizio cristiano. - Maria era stata la servitrice fedele: insieme alle altre donne, aveva seguito Gesù diligentemente, provvedendo al suo sostentamento e al suo benessere, a lavare i vestiti, a preparare la cena. - Ora diviene un’amante estatica, fuori di sé, che non sa nemmeno bene ciò che fa e dice, mossa più dall’affetto che dal ragionamento: il suo ragionamento è certamente sbagliato, la sua teologia è errata, e tuttavia ama moltissimo. Per questo ho ricordato la donna in casa di Simone, che «ha molto amato». Maria non ritiene più se stessa il centro della propria esistenza, perché è totalmente sbilanciata verso Gesù. - E lui, passando sopra tutte le imperfezioni della sua fede, della sua ricerca, le si manifesta, così che ella si sente amata immensamente. E l’eccesso della benevolenza di Gesù, che per primo si presenta a lei, la chiama semplicemente per nome, in qualche maniera apprezza la sua follia. E l’eccesso d’amore di cui si sente oggetto fa di lei una annunciatrice del Vangelo.
In questi tre “volti” della Maddalena - che è passata da servitrice fedele e diligente a essere amante estatica e infine annunciatrice del Risorto, ricolma del suo amore - si nasconde per così dire il messaggio per noi. è il messaggio dell’eccesso. (fai il download dell'intera meditazione)
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Sua Eccellenza il Vescovo Luca Milesi di anni 84, che era un prete cappuccino, fondatore degli Istituti Secolari e primo Vescovo della Diocesi di Barentu, è morto mercoledì 21 maggio 2008 alle I0.00 della sera. Il suo funerale ebbe luogo il martedì 27 maggio 2008 nella cattedrale di Santa Croce nella città di Barentu.
Sua Eccellenza il Vescovo Luca Milesi continuando le consuete attività giornaliere, circa alle 9.30 del mattino del 20 maggio, aveva lasciato Asmara per Dekemhare e aveva pranzato con le sorelle della comunità dell’Eucarestia. Dopo il pranzo mentre stava chiacchierando e ridendo con le sue amatissime giovani postulanti della comunità, sentì un acuto dolore che non aveva mai sperimentato prima. Subito andò in bagno e vi rimase qualche tempo; le ragazze erano molto preoccupate per il suo attardarsi e quando bussarono alla porta non ci fu risposta, questo è il momento nel quale lo trovarono molto affranto per un grande dolore.
Subito dopo lui fu portato all’Asmara.
All’incirca verso le 7.00 della sera fu accolto nell’ospedale Sembele. Poi con l’aiuto dei dottori, e noi crediamo con l’aiuto della preghiere, si è ripreso rapidamente.
I suoi ragazzi, membri degli Istituti Secolari, furono molto felici quando ricominciò a scherzare e chiacchierare con loro ancora una volta.
Effettivamente, essi e lui stesso pensarono che questa era la fine del suo male.
Sfortunatamente, il giorno dopo intorno alle sei del pomeriggio il dolore ricominciò di nuovo.
E’ stata questa la volta che Sua Eccellenza disse: “ora la morte è venuta”.
I dottori e le infermiere fecero del loro meglio per salvargli la vita.
Egli ricevette gli ultimi sacramenti da Sua Eccellenza il Vescovo Mengistaab Tesfamariam della Diocesi di Asmara e dopo di lui il Vescovo Emerito Zekarias Yohans.
In breve entrò in coma. Alle dieci della sera se ne andò in pace, mentre era circondato da tutti quelli che lo amano, pregando e piangendo. Possa la sua anima riposare nella pace eterna!
A mezzanotte il suo corpo venerato fu portato all’ospedale Oarota National Referral per essere custodito fino a che fossero completati i preparativi per il funerale.
Aspettando il giorno del funerale... (fai il download dell'intero testo, scritto dai fedeli eritrei)
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Senta, signor parroco. Constatiamo prima di tutto un fatto. La nostra gioventù non ha perduto l’interesse né la passione verso le cose belle, benché tali inclinazioni si dispongano al momento verso obiettivi che noi non consideriamo meritevoli di passione.
Perché ciò che noi si stima degno non scalfisce punto la fresca anima giovanile?
Segno qui tre spiegazioni a titolo di ipotesi. O i giovani di oggi sono così diversi da noi e così guasti che non avvertono più il sapore dello spirituale; o gli ideali che noi presentiamo sono finiti; o noi presentiamo questi ideali in modo che non interessano.
Escludo la prima ipotesi senza discuterla. I nostri figliuoli sono come noi. Sentono vivamente i richiami del corpo, ma non sono insensibili alla vita dello spirito. Ogni generazione ha una propria fisionomia, la quale però si staglia da uno sfondo di umanità, che rimane perenne e immutabile. Ogni generazione ha pure un proprio fascino o sogno o innamoramento, giudicato sempre follia dall’età precedente. Senza volerla confessare, esiste una gelosa rivalità fra la generazione che sale e quella che tramonta. Essa si sfoga in reciproche incomprensioni, in reciproci rimproveri, ai quali non bisogna dare molto peso.
La seconda ipotesi l’ho messa fuori per scrupolo di sincerità, per rispondere a un momento di tentazione, che può sorprendere anche il più solido dei credenti, senza scuoterlo. L’irriflessione è un fenomeno di superficialità. Gli spiriti profondi riescono a vivere con passione anche i momenti difficili e a cavarne beneficio.
Il problema riguarda il modo di presentare l’ideale, e lo sport è la protesta quasi inconsapevole dei giovani contro chi, possedendo tesori, non li sa far amare. (fai il download dell'intero testo)
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Che cosa ci dici, o Madre del Signore, dall’abisso della tua sofferenza? Che cosa suggerisci ai discepoli smarriti? Mi pare che tu ci sussurri una parola, simile a quella detta un giorno dal tuo Figlio: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa...!” (Mt 17,20). Che cosa vuoi comunicarci? Tu vorresti che noi, partecipi del tuo dolore, partecipassimo anche della tua consolazione. Tu sai, infatti, che Dio “ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1,4). E’ la consolazione che viene dalla fede. Tu, o Maria, nel Sabato santo sei e rimani la “Virgo fidelis”, la Vergine credente, tu porti a compimento la spiritualità di Israele, nutrita di ascolto e di fiducia. Ma come opera la consolazione che viene dalla fede?
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Hai avuto le tue colpe. Hai mormorato anche tu contro Mosè, mentre Myriam tua sorella ti faceva bordone. Però, tutto sommato, non ti sei mai lasciato prendere da quei "raptus" di gelosia, o da quelle sorde corrosioni dell'immagine del capo, a cui si lasciano andare spesso i cortigiani più vicini alla persona del principe: tanto vili nel lecchinaggio, quanto rapidi nel voltafaccia.Hai avuto le tue colpe. Ma non hai avvilito la tua anima nella sfrontatezza autoritaria. E ti sei sempre mantenuto lontano da quella voluttà di sottopotere che sta mettendo a dura prova la nostra convivenza civile.Oggi siamo assediati dai tirapiedi. C'è una inflazione di palloni gonfiati. Lo stuolo dei gregari si lottizza le aree del padrone. Il potere si frantuma nelle mani di fàmuli e giannizzeri di turno. La cerniera dei proseliti diventa passaggio obbligato per chi voglia accedere, non dico alla zona dei privilegi, ma perfino a quella dei più sacrosanti diritti. Finanziamenti, appalti, assunzioni, piani regolatori, tangenti, vengono filtrati dallo svincolo dei sottocaliffi. Gli accoliti, poi, si aggregano e si scompagnano secondo spregiudicati calcoli di alchimia politica, tutti tesi a cogliere l'attimo opportuno per salire sul vapore e insediarsi alla sua guida.Di qui, l'anima clientelare che ci portiamo dentro. Di qui, le molteplici sudditanze che, attraverso la lunga catena di vassalli, valvassori e valvassini, ci conduce a oscene genuflessioni. Di qui il cinismo con cui si spia il momento opportuno per far fuori chi comanda e prenderne il posto.Di qui, l'arroganza con cui il capo viene ricattato dagli arrampicatori che frequentano le sue segreterie. Di qui, l'impudenza con cui il gerarca supremo è spesso tenuto in ostaggio dai suoi corrotti manutengoli.Perdonami lo sfogo, carissimo Aronne. Ma parlare con una persona dal cuore incontaminato come il tuo mi solleva lo spirito. Mi fa sognare tempi migliori, che certamente verranno. E mi fa fiorire nell'anima la speranza in un mondo più pulito e più giusto.
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«Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”.
Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che é la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.
La camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili».
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La mia generazione è di fatto responsabile della mancata trasmissione alle nuove generazioni del valore del sacrificio. Ora, se non siamo capaci di comunicare la serietà del valore del sacrificio, ci ritroveremo con nuove generazioni incapaci di intravedere un orizzonte di bene comune e di speranza, vedremo rarefarsi gli uomini e le donne pronti a dedicare tempo, mezzi, energie, beni per una maggiore umanizzazione, per la crescita di una convivenza pacifica, per l’affermarsi di valori e principi degni dell’uomo. Mancanza grave, in verità, perché il sacrificio è una cosa seria: è il privarsi di un bene, l’astenersi da una possibilità in vista di un bene più grande. Spendere le proprie energie, fino al gesto estremo di sacrificare la vita stessa è possibile e doveroso se con quel sacrificio si ottiene giustizia, pace, libertà. Non dimentichiamo, ad esempio, che se noi oggi godiamo della libertà e della democrazia è grazie a quanti hanno sacrificato la propria vita per conquistarle e difenderle.
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Un altro oggetto di discernimento in questa seconda fase nelle comunità cristiane è spesso il lavoro pastorale, la missione, le priorità apostoliche (chiudere o aprire una comunità in un determinato posto, assumere un compito pastorale, lasciarne un altro ecc.). Per questo motivo si è tornati a parlare di discernimento comunitario, in quanto si vuole che tutta la comunità partecipi alle scelte che si prendono. Il discernimento comunitario, nel senso proprio del termine, non significa arrivare alla scelta sommando i discernimenti individuali, ma che la comunità si riconosce come un organismo vivo, che le persone che la compongono creano una comunione dei cuori tale che lo Spirito si può rivelare e che esse lo colgono in quanto comunione di persone, unità di intesa.
Il discernimento comunitario fa leva sull'amore nel quale vive la comunità. La carità fraterna è la porta alla conoscenza. L'amore è il principio conoscitivo. Dunque, se realmente si vive nell'amore e non solo si pensa, si è nello stato privilegiato per la conoscenza delle realtà spirituali e per la creatività. Le intuizioni, la capacità creativa, inventiva, crescono proficuamente solo dall'amore. Allora la comunità può essere molto più sicura di essere sulla scia della volontà di Dio, che la intuisce, la conosce e che risponde, se discerne come comunità, proprio a causa dell'amore fraterno. Il discernimento comunitario non è dunque un semplice dibattito su un argomento, una riflessione guidata, partecipata; il discernimento comunitario non si muove sulle coordinate della valutazione democratica, con i processi di votazione usuali nei parlamenti.
Le premesse del discernimento comunitario
Sono necessarie alcune premesse perché il discernimento nel senso vero si possa realizzare:
- Le persone della comunità dovrebbero essere tutte ad uno stadio di vita spirituale caratterizzato da una radicale sequela Christi, con una esperienza riflettuta di Cristo pasquale. I membri della comunità devono essere dunque ben dentro alla logica pasquale e spinti da un autentico amore per Cristo che deve essere il primo nei loro cuori. (...)
- Le persone della comunità dovrebbero avere anche una maturità ecclesiale, una coscienza teologica della Chiesa liberata dai determinismi sociologici e psicologici, per una libera comprensione dell'autorità e dunque un libero atteggiamento di fronte ad essa. (...) Le persone devono essere, almeno in linea di principio, pronte ad entrare in una preghiera per liberarsi dalle proprie vedute, dai propri argomenti e dai propri desideri.
- Ci vuole la maturità umana di saper parlare in modo distaccato, pacato e conciso. Ci vuole la maturità di saper ascoltare fino in fondo, di non cominciare a reagire mentre l'altro ancora parla. Non solo esteriormente, ma anche interiormente, ascoltare fino alla fine. (...) Più ci si inciampa tra le persone, meno si è protesi verso la direzione giusta.
- Inoltre, ci vuole un superiore, una guida della comunità capace di portare a termine il processo di discernimento. Una persona cioè che abbia un'autorità spirituale, non semplicemente ex officio, e che conosca le dinamiche del discernimento, in modo da poterne guidare il processo.
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Tutti gli esercizi di discernimento hanno infatti lo scopo di acquisire un atteggiamento costante di discernimento. C’è una grande differenza tra il discernimento come esercizio spirituale all’interno della preghiera e l’atteggiamento del discernimento acquisito ormai come habitus, come atteggiamento costante, come una disposizione orante alla quale portano tutti gli esercizi della preghiera.L’atteggiamento del discernimento è uno stato di attenzione costante a Dio, allo Spirito, è una certezza esperienziale che Dio parla, si comunica, e che già la mia attenzione a Lui è la mia conversione radicale. E’ uno stile di vita che pervade tutto ciò che io sono e faccio.L’atteggiamento di discernimento è vivere costantemente una relazione aperta, è una certezza che ciò che conta è fissare lo sguardo sul Signore e che io non posso chiudere il processo del mio ragionamento senza l’oggettiva possibilità che il Signore si possa far sentire - proprio perché è libero - e dunque mi faccia cambiare; l’atteggiamento di discernimento è quello che impedisce di intestardirsi: non ci si può rinchiudere nel proprio aver ragione, perché non sono io il mio epicentro, ma il Signore, che riconosco come la fonte dalla quale tutto proviene e verso la quale tutto confluisce.L’atteggiamento del discernimento è dunque un’espressione orante della fede, in quanto la persona permane in quell’atteggiamento di fondo di riconoscimento radicale dell’oggettività di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, Persone libere, e questo riconoscimento costituisce la fede.Il discernimento non è allora un calcolo, una logica deduttiva, una tecnica ingegneristica in cui scaltramente bilancio mezzi e fini, né una discussione, una ricerca della maggioranza, ma una preghiera, l’ascesi costante della rinuncia al proprio volere, al proprio pensiero, elaborandolo come se dipendesse totalmente da me, ma lasciandolo totalmente libero.(fai il download dell'intero testo)
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L’istanza contenuta nel titolo del mio discorso Alla fine del millennio, lasciateci sognare! vuole appunto esprimere la speranza che può venire da una visione di futuro che lasci spazio alla potenza di Dio e alla forza costruttiva delle beatitudini evangeliche, non da un ripiegamento ossessivo e analitico sui nostri mali. Si chiede dunque a tutte le persone e i gruppi di buona volontà, in Europa e in Italia, di ispirarsi a progetti positivi; di guardare all’uomo saggio del Vangelo che, fidandosi delle parole del discorso della Montagna, le mette in pratica e costruisce una casa che resiste a tutti gli uragani (Mt 7,24-25); di dare spazio allo Spirito il quale farà sì che negli ‘‘ultimi giorni” - lo sono anche i nostri - “i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni” (At 2, 17).
Mi viene in mente quel sogno di Chiesa capace di essere fermento di una società che espressi il 10 febbraio 1981, a un anno dal mio ingresso in Diocesi, e che continua ad ispirarmi:
- una Chiesa pienamente sottomessa alla Parola di Dio, nutrita e liberata da questa Parola
- una Chiesa che mette l’Eucaristia al centro della sua vita, che contempla il suo Signore, che compie tutto quanto fa “in memoria di Lui” e modellandosi sulla Sua capacità di dono;
- una Chiesa che non tema di utilizzare strutture e mezzi umani, ma che se ne serve e non ne diviene serva;
- una Chiesa che desidera parlare al mondo di oggi, alla cultura, alle diverse civiltà, con la parola semplice del Vangelo;
- una Chiesa che parla più con i fatti che con le parole; che non dice se non parole che partano dai fatti e si appoggino ai fatti;
- una Chiesa attenta ai segni della presenza dello Spirito nei nostri tempi, ovunque si manifestino;
- una Chiesa consapevole del cammino arduo e difficile di molta gente oggi, delle sofferenze quasi insopportabili di tanta parte dell’umanità, sinceramente partecipe delle pene di tutti e desiderosa di consolare;
- una Chiesa che porta la parola liberatrice e incoraggiante dell’Evangelo a coloro che sono gravati da pesanti fardelli;
- una Chiesa capace di scoprire i nuovi poveri e non troppo preoccupata di sbagliare nello sforzo di aiutarli in maniera creativa;
- una Chiesa che non privilegia nessuna categoria, né antica né nuova, che accoglie ugualmente giovani e anziani, che educa e forma tutti i suoi figli alla fede e alla carità e desidera valorizzare tutti i servizi e ministeri nella unità della comunione;
- una Chiesa umile di cuore, unita e compatta nella sua disciplina, in cui Dio solo ha il primato;
- una Chiesa che opera un paziente discernimento, valutando con oggettività e realismo il suo rapporto con il mondo, con la società di oggi; che spinge alla partecipazione attiva e alla presenza responsabile, con rispetto e deferenza verso le istituzioni, ma che ricorda bene la parola di Pietro: “E’ meglio obbedire a Dio che agli uomini” (At 4,19). (...)
Dal sogno di una Chiesa così e della sua capacità di servire la società con tutti i suoi problemi nasce l’invito a lasciarci ancora sognare: Lasciateci sognare! Lasciateci guardare oltre alle fatiche di ogni giorno! Lasciateci prendere ispirazione da grandi ideali! Lasciateci contemplare con scioltezza le figure che, come Ambrogio, hanno segnato un passaggio di epoca non con imprese militari o con riforme imposte dall’alto, bensì valorizzando la vita quotidiana della gente, insegnando che la forza e il regno di Dio sono già in mezzo a noi e che basta aprire gli occhi e il cuore per vedere la salvezza di Dio all’opera. La forza di Dio è in mezzo a noi nella capacità di accogliere l’esistenza come dono, di sperimentare la verità delle beatitudini evangeliche, di leggere nelle stesse avversità un disegno di amore, di sentire che il discorso della croce rovescia le opinioni correnti, vince le paure ancestrali e permette di accedere a una nuova comprensione della vita e della morte. (fai il download dell'intera omelia)
Il nostro sogno non sarà allora evasione irresponsabile né fuga dalle fatiche quotidiane, ma apertura di orizzonti, luogo di nuova creatività, fonte di accoglienza e di dialogo.
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Conservo soprattutto il ricordo dell'atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva. Ho trascorso durante il Concilio gli anni migliori della mia vita, non solo e non tanto perché avevo meno di quarant'anni, ma perché si usciva finalmente da un'atmosfera che sapeva un po' di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l'aria pura, si guardava al dialogo con tante altre realtà, e la Chiesa appariva veramente capace di affrontare il mondo moderno. Tutto questo, lo ripeto, ci dava una grande gioia e una forte carica di entusiasmo. (fai il download dell'intera intervista)
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C’è da chiedersi se, nel XXI secolo, la posizione della Santa Sede non sia illusoria, frutto di purismo astratto. Il Vaticano non pretende di essere un tribunale internazionale che condanni di volta in volta le violazioni, le politiche aggressive o altro. Anche se talvolta i papi ne parlano, non è la missione prioritaria. Ma ammonire sui rischi della guerra è un compito a cui la Santa Sede non rinuncia. Sembra che la sua esperienza storica la confermi nella convinzione che guerre e rivoluzioni lasciano il mondo peggiore di come lo hanno trovato. Inoltrarsi nel terreno della guerra rappresenta un’«avventura senza ritorno», per usare le parole di Giovanni Paolo II. è una coscienza che la Chiesa di Roma ha maturato da più di due secoli. Meglio è per lei consigliare il dialogo, l’applicazione del diritto internazionale, il negoziato. La Chiesa non si sente pacifista, ma pacificatrice (papa Wojtyla non si è confuso con il pacifismo). Sa che torti e ragioni non si dividono mai equamente tra le parti, ma considera la guerra come una soluzione che non risolve e alla fine travolge. (fai il download dell'intero articolo)
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Attorno all’agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... – senza pensare a Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna \ neppure io ti condanno: va’ e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!» al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?
Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
è avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da
Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.
Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.(...)
La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale, essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente. (fai il download dell'intero articolo)
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Smarrimento e angoscia che non ci coinvolgono solo sul terreno del lutto per i morti, delle lacrime per tutti i feriti, del lamento doloroso per i profughi, per i senza tetto, per coloro che vivono nell’angoscia dei bombardamenti giorno e notte.
Lo smarrimento e la divisione delle opinioni avvengono pure sul terreno delle riflessioni etico-politiche, che in questi giorni si succedono facendo balenare i più diversi giudizi.
Vorrei dire molto di più: lo smarrimento e l’angoscia toccano persino l’ambito della fede e della preghiera, che è quello che ci riunisce questa sera, perché siamo qui per vegliare, digiunare, intercedere, facendo nostre le intercessioni e le grida di tutti gli uomini e le donne, di tutti i bambini, di tutti i vecchi in qualche modo coinvolti nel conflitto del Golfo, di qualunque parte essi siano". (fai il download di tutta l'omelia)
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Il capo della sinagoga invece sembra non percepire nemmeno ciò che è appena accaduto.E’ strano perché fa quasi compassione la sua formidabile meschinità; ci viene da dire: “poveretto, ma di fronte a questo straordinario evento, lui non sa far altro che lamentarsi per una prescrizione formale trasgredita?”.E’ il cuore gretto di quest’uomo il vero oggetto della compassione di Gesù, manifestata così mirabilmente nei confronti di questa donna.Potremmo quasi cogliere un parallelo: come il corpo di questa donna era bloccato in una posa innaturale, e in nessun modo poteva essere restituito alla sanità così il cuore di un uomo tanto misero non può che rimanere bloccato nella sua piccineria, nella sua visione limitata, gretta e incapace di rendersi conto delle grandi meraviglie che Dio opera. (fai il download dell'intero intervento)
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Non ho mai creduto alla frase: dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, Non dietro: dentro. Soltanto quando diventano una cosa sola l’uomo e la donna riescono a creare, nella carne come nell’arte. Anche se i meriti, almeno nell’arte, se li prende poi uno, e finora quell’uno è stato quasi sempre il maschio. (fai il download dell'intero articolo)
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Una volta al potere, gli stupidi sono orgogliosi del loro posticino, e amano farsi chiamare con il titolo raggiunto, «consigliere», «ministro», «direttore»... Sono «tenaci, pazienti, imprevedibili, bugiardi, ruffiani, spavaldi, intolleranti, esageratamente ambiziosi, prevaricatori, diffidenti, vendicativi». Spesso sono anche felici, perché non si rendono conto di quel che sono e di quel che fanno. Dilagano ovunque, dal pubblico al privato, dalle fabbriche ai parlamenti, dalle banche (come si vede in questi giorni) ai supermercati. E si presentano sotto svariate forme. (fai il download dell'intero articolo)
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Mi preme sottolineare che la conversione intellettuale è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più comodo, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell'influenza dell'ambiente anche buono. Tuttavia, il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segnato da bufere di opinioni contrastanti. In altre parole, la conversione intellettuale è propria di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a cogliere la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare altri. (fai il download dell'intero contributo)
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"Sarebbe facile redigere una raccolta di lamentele piena di cose che non vanno molto bene nella nostra Chiesa, ma questo significherebbe adottare una visione superficiale e deprimente, e non guardare con gli occhi della fede, che sono gli occhi dell'amore. Naturalmente non dobbiamo chiudere gli occhi sui problemi, dobbiamo tuttavia cercare anzitutto di comprendere il quadro generale nel quale essi si situano". (continua - fai il download dell'intero articolo)